18 anni di espatrio: il racconto inedito di come è iniziata

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    storia di espatrio

    Amo scrivere e fotografare per immortalare momenti, per "stamparli" e non scordarli più, per la paura di perderli.

    Lo faccio da quando ero bambina con i diari segreti che ancora custodisco come cimeli a casa dei miei genitori. Più cresco, più la vita si riempie di ricordi, più sento che non riesco a trattenere tutto, anche se la mia anima è iperattiva nell'immagazzinare per bene tutte le emozioni che mi travolgono giorno dopo giorno.

    Oggi, 18 Maggio 2022, celebro i miei 18 anni di espatrio, 18 anni che sembrano volati in un soffio in un tornado di eventi, incontri, passioni, crescita, amore, famiglia, sfide e soddisfazioni.

    La soddisfazione di guardarmi indietro e dire "menomale che sono partita!".

    Di tutti questi anni, che non sono assolutamente raccontabili in un post, ma che ho via via documentato in questo mio blog di vita vera, uno dei ricordi più nitidi è la "paura" che avevo quando ho lasciato casa e sono partita da sola per l'estero.

    Da quella paura parte il mio primo racconto di scrittura creativa, in parte autobiografico, nato da un corso di scrittura che ho fatto qualche tempo fa. Lì per lì il mio testo non è piaciuto troppo agli altri corsisti e la cosa mi ha demoralizzato non poco. Imparare a dare il giusto peso all'opinione degli altri è qualcosa su cui sto ancora lavorando.

    Per celebrare i miei 18 anni di espatrio ho deciso di guardare la paura del giudizio altrui e condividerlo con voi, che mi leggete da anni.

    La paura è stata la spinta di tutto, è stata la molla necessaria per farmi vivere la vita che cercavo, quella in cui mi sento me stessa al 100% . Per cui se vi sentite bloccati dalla paura, guardatela e affrontatela.

    Il cambiamento fa paura, terrorizza, ma fa più paura il pensiero di non evolvere, non cambiare e non andare incontro alla vita che vorresti.

    18 Maggio 2004

    Non ce l’ho fatta, sono andata a chiudermi nel bagno dell’aeroporto per dare sfogo alle lacrime che ho tenuto dentro per tutta questa prima parte del viaggio.
    La mia valigia carica di poche cose essenziali rende questo spazio ancora più angusto, il rumore degli sciacquoni, dell’acqua che scorre, della romba degli asciugamani elettrici e del via vai di viaggiatori mi tengono ancorata alla realtà e al tempo che scorre mentre la mia testa si perde nel frastuono dei miei pensieri.
    Il secondo volo, quello che da Londra mi porterà a Dublino, parte tra un paio d’ore.
    La dose di coraggio che mi ha sostenuta fin qui è andata a farsi un giro, ha deciso di abbandonarmi proprio sul più bello.
    Io a Dublino ci devo ancora arrivare e la mia nuova vita deve ancora iniziare e già piango, piango di paura.

    Nella testa mi rimbomba la voce assillante dell’altoparlante
    “We are now inviting passengers with small children and any passengers requiring special assistance to begin boarding”
    “This is the final boarding call for Delta airlines flight 440 to Berlin”
    “Unattended baggage will be removed”

    e il senso di frustrazione cresce tanto quanto la quantità di parole che non capisco.
    Bei tempi quelli in cui aprivo i libri di inglese e tutto sembrava semplice. Di semplice in questo momento c’è solo la linea che percorrono le lacrime sul mio viso.
    “Ma davvero ho preso la decisione giusta?”
    “E se da sola non ce la faccio?”
    “Sono ancora in tempo per tornare indietro?”

    Sono arrivata a Luton con un volo diretto da Bergamo prenotato di getto qualche settimana fa.
    Ho lasciato l’appiccicume della pianura padana, il caldo opprimente e le zanzare per andarmi a immergere nella piovosa estate del nord Europa.
    Ho con me un migliaio di euro, quelli che mi sono guadagnata lavorando al pub tutti i sabati sera mentre gli amici e il mio fidanzato se la spassavano tra locali e discoteche.
    Spero mi bastino per iniziare.
    Li tengo qui, in quello che le mie amiche hanno definito “marsupio da sfigata” e che io invece considero un grande alleato del viaggiatore, fregandomene come sempre dei loro commenti fashion. Un marsupio di cotone morbido legato alla vita, a contatto con la pelle, nascosto sotto la maglietta, che mi ricorda la sua presenza e importanza ad ogni passo ed ogni movimento.

    “Ma che cavolo ci vai a fare a Dublino?”, mi hanno chiesto con tono inquisitorio molti amici.
    “E’ solo per qualche mese, mi cerco un lavoretto, provo a migliorare il mio inglese e poi torno”, rispondevo titubante quasi a voler giustificare la mia scelta istintiva, ma poi aggiungevo con ira crescente: “Lo so solo io quante volte mi sono sentita dire che senza un buon inglese quel lavoro non potevano darmelo, per non parlare di tutti i curriculum inviati senza ricevere risposta, delle porte sbattute in faccia ai colloqui dove non ero mai abbastanza”.

    Da quando sono tornata a casa, dopo gli anni di università fuori sede, mi sembra d’aver perso il mio carburante motivazionale.
    Le mie giornate sono scandite dal ritmo monotono del leggere annunci di lavoro e inviare curriculum in un’attesa snervante che qualcosa accada.
    Tutto tace, niente si muove. Attendo.
    Mi manca l’adrenalina in corpo prima degli esami, l’eccitazione e la fatica della tesi di laurea, il sapore coinvolgente dei pranzi con le amiche dell’università, le serate a condividere fatiche, difficoltà e sogni ambiziosi.

    “Cosa vuoi da mangiare?”
    “Allora ti hanno risposto da quell’hotel per il posto alla reception?”
    “A che ora torni? Ci sei per cena?”
    “Con chi ti sei vista ieri sera? Sei tornata tardi?”
    “Ho chiesto a Sergio, il carabiniere, se conosce qualcuno, ma non mi ha risposto”
    “Non ne posso più di vederti sempre in casa con quel muso lungo”

    Non mi mancavano le frasi inquisitorie dei miei genitori che sono tornate fastidiose come quei maglioni di lana che mia madre mi obbligava a mettere ogni inverno e che pizzicavano la pelle.

    “Ho deciso di andare a fare un’esperienza all’estero per qualche mese”.
    “Ecco, ce n’eravamo accorti che in casa con me e il papà non ci stavi più bene”
    ha risposto mia madre con il capo chino e la voce da vittima.
    “Non è quello mamma, ho bisogno di andare a imparare bene l’inglese, così magari riesco a trovare lavoro più facilmente quando torno, voi non c’entrate niente”, ho ribattuto facendo appello ai miei sensi di colpa.
    “Lo vediamo che non sei felice qui” non è andata oltre mia madre, consapevole di toccare il tasto dolente della mia vita.

    Ho salutato la cumpa senza dare troppe spiegazioni, in fondo da quando li conosco non sono mai stati tipi da riflessioni, discorsi complessi o approfondimenti emotivi con me.
    Ci si trova per una birra al pub, per una serata al cinema o una cena in compagnia in cui si sparano cazzate come pallottole, senza che poi realmente nessuno sappia veramente niente di profondo dell’altro, in un alone di superficialità che mi ha sempre lasciata basita, assetta di altro, ma allo stesso tempo attaccata a loro.

    “Ragazzi parto per Dublino tra qualche settimana”, ho annunciato mentre da dietro il bancone gli servivo le loro Corona e loro puntavano il dito al collo della bottiglia per indicarmi che mi ero di nuovo dimenticata lo spicchio di limone.
    Passavano dal pub tutti i sabati sera prima della discoteca, ma non ho mai capito se era per salutarmi, per abitudine o semplicemente per bere una birra in più.
    “Tanto poi torni in fretta, che lassù il cibo fa schifo e piove sempre”, aveva detto Claudio infilando le sue mani sporche di grasso di motore nella ciotola delle noccioline.
    “Certo che tu non sei mai contenta dove stai. C’era l’università anche qui a Parma e te ne sei andata a studiare a Perugia, c’è un sacco di lavoro qui intorno e te ne vuoi andare a Dublino, datti pace che è meglio”, ha sbottato Silvia dopo la seconda birra.
    “Ma cercati un lavoro tranquillo, un bel contratto a tempo indeterminato e via, poi non ti rompe più il cazzo nessuno”, ha cercato di convincermi Alessandro, fiero di sé e del suo contratto da ragioniere ben pagato.

    Sto fuggendo, anche dal sentirmi troppo spesso fuori luogo.
    In fondo io in quel paesino di provincia della pianura padana non mi sono mai sentita del tutto a casa.
    “Fabiana, quella con la R moscia, la francese, la tettona”, dicevano all’inizio per identificarmi, quando delle tette mi vergognavo e di francese avevo solo il luogo di nascita nel passaporto. Quel luogo che racchiudeva una storia di immigrazione e di due giovani italiani innamorati e dei loro figli.
    Il mio passato, quello della mia famiglia, risultava sempre troppo difficile e lungo da raccontare, ma celava qualcosa di tremendamente potente e speciale che non appariva mai agli occhi ciechi dei miei amici.

    Ricordo il disagio di quando la professoressa di italiano delle medie chiedeva di scrivere un tema facendo un’intervista ai propri nonni che erano stati in guerra.
    Tutti correvano dai loro nonnetti pazienti, io non correvo da nessuno.
    I nonni lontani, i nonni defunti, erano il sasso che mi faceva inciampare.

    Ricordo bene i pomeriggi delle afose estati padane passati con gli amici adolescenti che facevano battute in dialetto e rievocavano storie d’infanzia che sembravano essere spassosissime. Quel dialetto e quei ricordi non mi riguardavano e andavano ad amplificare il mio senso di non appartenenza.
    Dalla Francia all’Italia, da Cervaro a Boscola, da Boscola a Treraggi: non erano tratte di un treno ma i traslochi fatti dalla mia famiglia negli anni della mia infanzia che non mi hanno permesso di mettere radici da nessuna parte.

    A Treraggi ho incontrato Roberto, un amico dell’adolescenza e il mio amore dei vent'anni.
    Stiamo insieme da quattro anni e siamo a un bivio: lui, avventuroso solitario sognatore, progetta un’esperienza all’estero per i fatti suoi, ma sembra non decidersi. Io, assetata d’amore, compagna che si sente esclusa, presa da rabbia interiore repressa, esplodo con l’idea di partire per prima.

    La decisione l’ho presa io, ho smosso queste acque stagnanti per far ricomparire onde travolgenti.
    Nella mia logica malata dell’amore strategico mi sono messa in cammino facendo il primo passo verso l’Irlanda e poi lui mi raggiungerà.

    Non ho scelto Dublino a caso.
    Dublino è la città che Roberto ha amato alla follia per la Guinness, per i pub che puzzano di birra acida e sudore, per la musica che ti fa vibrare dentro, per l’atmosfera che ti avvolge e per i Lepricani di Harry Potter.

    L’ha visitata con i suoi amici inseparabili qualche mese fa, è la città in cui dice che gli piacerebbe vivere.
    “Certo che sei furba tu. Te l’ho detto che ho bisogno di fare un’esperienza di vita da solo, non lo capisci? Le stai provando tutte per partire insieme, ma io non voglio”, mi ha detto dritto nel muso Roberto dopo avergli annunciato che avevo acquistato il biglietto di sola andata per Dublino, mentre guidava per riportarmi a casa dopo una delle solite serate con la cumpa.
    “Semplicemente non capisco cosa ci sia di male nell’andare insieme qualche mese a Dublino: impariamo l’inglese, ci facciamo un’esperienza in un posto che adori, conosciamo gente nuova”, ho cercato di giustificarmi io con voce sommessa, guardando fuori dal finestrino per non incrociare il suo sguardo scocciato.
    “Tu vai, goditi i tuoi mesi da sola, poi quando torni ne riparliamo, ma ti prego non rompere più le palle con questa storia”, ha tagliato corto parcheggiando davanti a casa mia e salutandomi con un bacio fugace.

    Dublino è anche la città in cui hanno vissuto alcune mie amiche dell’università, quelle che ho chiamato per farmi sentire dire che in fondo la mia idea di partire era una buona idea e che Dublino poteva essere la meta giusta.
    “Vai Fabi, buttati, io mi sono trovata da Dio a Dublino, sono stati sei mesi fantastici per me, ne vale la pena. Vedrai che ti troverai benissimo”. Mi ha spronato Arianna al telefono.
    La capitale della terra di smeraldo, in questi anni 2000 di boom economico per l’Irlanda, sta accogliendo migliaia di giovani europei in cerca di lavoro, opportunità e nuove esperienze, se mi unisco a loro non sarà poi così difficile, no?

    Interrompo la linea semplice delle lacrime asciugandole con il dorso della mano.
    Faccio un respiro profondo, impugno con mano decisa la mia valigia, giro la maniglia della porta del bagno, ascolto il mio desiderio ardente di cambiamento, raccolgo i cocci delle mie emozioni ed esco dal bagno dell’aeroporto londinese.

    Il rumore delle ruote della mia valigia, che scorrono sul pavimento lucido dell’aeroporto, fa da colonna sonora al mio attraversare la fiumana di gente, ognuno in direzione diversa, con il proprio bagaglio di vita e di chissà quale motivazione che li ha fatti arrivare lì.
    Cerco di tramutare la mia paura in energia, ripenso a cosa mi ha portato fin qui e mi concentro alla ricerca del mio gate, scrutando con la testa in sù i cartelloni luminosi dalle centinaia di destinazioni.
    Eccolo, Dublino, gate 31, stanno per imbarcare.
    Non so cosa mi aspetta, ma sento ardere il desiderio di scoprirlo.

    Grazie d'essere arrivati fin qui. Non so cosa ne sarà di questo racconto, se diventerà parte di un progetto più grande, ma per ora è il primo passo per condividere qualcosa di profondo della mia lunga storia di espatrio ricordandomi da dove sono partita. 


    Ascolta l'episodio del Far and Away podcast